È un filo esile e fermo quello che lega tanti bresciani alla parlata dei nostri nonni. Esile perché il mondo che faceva da sfondo a quel dialetto si allontana inesorabilmente. fermo per la consapevolezza che molto di quel che oggigiorno siamo, e che domani potremo essere, nasce da quel mondo. Da quella parlata.
«Un fermo esile filo» si intitola l’intenso volumetto che Andreina Polonioni ha voluto dedicare al suo paese, a Cimbergo, scrigno – come accade a tanti dei nostri borghi – di un ricchissimo patrimonio di usanze e memorie popolari. A colpire noi cittadini – impregnati di koiné bresciana – è anzitutto il colore della lingua. Che suona arcaica ad esempio nel preferire le «u» alle «v» (uènt invece di vènt), oppure nell’aspirare spesso la «s», o nello scegliere al fò invece di el fà (egli fa). Ma sotto la scorza della prima difficoltà di lettura si trova il tenero di una cultura viva.
«Nelle sere d’inverno – scrive Andreina – s’endàua a lesèrna ’ndóle téze» (si andava nelle stalle, rischiarate da una lucerna). Dalle pagine escono filastrocche, modi di dire, scötöm, ricette, devozioni e memorie (come le forme delle nöde con cui ogni famiglia marcava i propri strumenti agricoli). Escono fatiche e solidarietà. Ed escono lampi di saggezza antica: laorà e tignì a mà coma és sòs sémpar da scampà, uésar dabé coma és sòs da murì domà (lavorare e risparmiare come se si dovesse scampare in eterno, essere brave persone come se si dovesse morire domani). Su tutto vigila l’orgoglio della propria storia: «Òm mìa da ué respèt dól nos dealèt», non dobbiamo aver vegogna del nostro dialetto. A lui ci lega un filo. Ormai esile, ma fermo.